Giorgio Beretta

Cedolare secca sugli affitti Airbnb: miti da sfatare, riforme da attuare

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Il decreto legge che accompagna il Def 2017 ha introdotto, a partire dal 1° giugno, l’obbligo per gli intermediari, inclusi i portali telematici come Airbnb, di operare il prelievo sostitutivo della cedolare secca sui proventi derivanti dalle locazioni di breve durata.

Tassa formato Airbnb: cosa l’intervento non prevede…

Alla fine è arrivata. La cosiddetta tassa sugli affitti Airbnb, dopo essere stata proposta senza successo in sede di esame della Legge di Stabilità 2017, ha visto la luce nel decreto legge che accompagna il Def 2017. Occorre tuttavia fare chiarezza. La misura non introduce alcun nuovo tributo, né estende l’ambito di applicazione (sia rispetto ai soggetti passivi che alla base imponibile) di quelli esistenti, né tantomeno colpisce esclusivamente gli affitti conclusi tramite piattaforme telematiche.

La cedolare secca, di cui all’art. 3 del D.lgs n. 23/2011, prevede, nella sua forma ordinaria, l’assoggettamento dell’ammontare lordo dei canoni di locazione percepiti dal proprietario di immobili ad uso abitativo ad un prelievo, in deroga al regime ordinario Irpef, in misura proporzionale pari al 21%. L’imposta sostitutiva (oltre che dell’Irpef, anche delle imposte di registro e di bollo) risulta quindi già compiutamente disciplinata dal 2011, né la Manovra correttiva 2017 innova sul punto.

In effetti, come confermato tanto dalla lettera della norma quanto dall’Amministrazione finanziaria nella circolare n. 26/E del 2011, la cedolare secca può già attualmente applicarsi alle locazioni brevi, ossia inferiori a 30 giorni. Il problema è semmai di compliance. Non sussistendo infatti alcun obbligo di registrazione ai fini dell’imposta di registro per tali contratti (se non in caso d’uso), i relativi proventi non sono spesso dichiarati dai percipienti né l’Amministrazione ha la possibilità di verificare la correttezza di quanto indicato dai contribuenti (se non analizzandone le movimentazioni bancarie). È questa in estrema sintesi la ragione per cui larga parte dei proventi derivanti da locazioni brevi (non solo quelle concluse tramite Airbnb) non sconta alcuna imposizione.

…e cosa invece prevede e quali conseguenze comporta

L’intervento pone dunque mano a questa criticità, attribuendo agli intermediari (telematici e non) il ruolo di sostituti d’imposta, oltre che il compito di trasmettere i dati relativi ai contratti conclusi mediante il loro tramite, scongiurando così l’occultamento al Fisco dei redditi derivanti dagli affitti brevi. L’intervento normativo comporta però il venir meno della facoltatività dell’imposizione sostitutiva. Se infatti la cedolare secca costituisce una modalità di prelievo opzionale, ossia lasciata alla facoltà del locatore, nel caso di affitti di breve durata, invece, essa interviene de plano, quantomeno sotto forma di ritenuta a titolo di acconto, qualora il proprietario opti per il regime ordinario in sede di dichiarazione.

Un regime, quello della cedolare secca, che, a dispetto delle perplessità che pure sono state sollevate, ha sinora dato buona prova di sé. A cominciare dalla registrazione del contratto e dagli adempimenti successivi, che possono essere gestiti dal locatore tramite procedure semplificate ed in via telematica.

Regime che pare inoltre incontrare il favore dei contribuenti. Secondo i dati più recenti diffusi dall’Agenzia delle Entrate, basate sulle dichiarazioni dei redditi del 2016 (anno fiscale 2015), più di tre proprietari su quattro hanno optato per la cedolare secca in luogo dell’ordinaria tassazione Irpef. In questo senso, forse, un ulteriore argomento a favore dell’introduzione di una flat tax, nell’ottica di un più generale ripensamento dell’Irpef, essendo tramontata l’idea, compendiata nell’art. 9 della legge delega n. 825/1971, di “limitare nella maggior possibile misura le deroghe ai principi di generalità e di progressività dell’imposizione”. Specie negli ultimi anni, l’ordinamento tributario ha infatti conosciuto forme di tassazione proporzionale alternative all’Irpef (si pensi, oltre ai redditi finanziari, all’Iri o al regime dei contribuenti minimi). Vero è che, trattandosi di affitti immobiliari, in questo caso ad essere premiati fiscalmente sono i rentiers.
 
L’intervento normativo in commento è anche l’occasione per riaprire il dibattito sulla sharing economy, con un DDL da tempo all’esame della Camera. In un momento in cui l’altro portabandiera del settore, Uber, si mostra in difficoltà (in Italia a seguito del blocco decretato dal Tribunale di Roma, mentre si attende la pronuncia della Corte UE sulla natura stessa del servizio), l’approccio adottato da Airbnb appare improntato ad una maggiore collaborazione con le autorità pubbliche, dimostrata dalla conclusione di 275 accordi per la riscossione delle imposte con altrettante giurisdizioni. In Italia un accordo per la riscossione dell’imposta di soggiorno (la cui revisione è stata più volte annunciata dal Ministero del Turismo) è stato raggiunto con il Comune di Firenze, anche se non è ancora operativo, e una lettera d’intenti siglata con la Regione Liguria lo scorso dicembre. Cooperazione che dovrebbe ulteriormente rafforzarsi, attesa la possibilità, prevista dal decreto, di stipulare convenzioni tra l’Agenzia delle Entrate e le piattaforme online.
 
Nonostante le criticità evidenziate, specie in ordine alla rinuncia alla progressività Irpef, l’intervento normativo de quo deve essere accolto con favore, innanzitutto quale strumento finalizzato a ridurre l’evasione contributiva. È inoltre positivo il coinvolgimento degli intermediari, in quanto semplifica gli adempimenti fiscali per il contribuente. È infine, de iure condendo, un primo interessante esempio di collaborazione tra autorità pubbliche e operatori della sharing economy.
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