Giorgio Beretta

Le agevolazioni fiscali per i lavoratori “impatriati”. Il decreto attuativo del MEF tra chiarimenti e criticità

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Il Decreto “recante misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese” (D.lgs., 14 settembre 2015, n. 147) ha introdotto all’art. 16 una specifica agevolazione fiscale per le persone fisiche che trasferiscono la propria residenza in Italia al fine di intraprendere un’attività lavorativa nel territorio dello Stato.

L’inserimento della disposizione in rassegna all’interno del Decreto sulla crescita e l’internazionalizzazione delle imprese dimostra la consapevolezza del legislatore circa il ruolo fondamentale che la leva fiscale può giocare per rilanciare la competitività internazionale del “sistema Italia”. La capacità di un Paese di navigare tra le sfide di un mondo globalizzato non si misura infatti esclusivamente con riguardo all’abilità delle imprese di operare su mercati esteri (in quest’ottica si inscrive, per esempio, l’art. 14 del suddetto Decreto che introduce la cd. “branch exemption”), o di favorire investimenti di multinazionali sul proprio territorio (in tal senso si muove la disposizione di cui all’art. 2 del Decreto disciplinante l’interpello sui nuovi investimenti), bensì anche rispetto alla possibilità di attrarre dall’estero individui di talento che possano vantare notevoli esperienze di lavoro o studio e quindi garantire ricadute positive in termini socio-economici.

Dal punto di vista comparatistico, l’idea dell’impiego della leva fiscale a tali fini non è certo inesplorata. La previsione di cui all’art. 16 riflette infatti un processo in atto in anni recenti in molti Paesi dell’Unione europea. Analoghe normative fiscali di favore per i lavoratori “impatriati” sono state istituite, ad esempio, in Francia, Spagna, Olanda, Portogallo, senza peraltro tralasciare il più risalente e peculiare sistema della “remittance basis”, attualmente a regime negli ordinamenti tributari di Regno Unito ed Irlanda.

Neppure si può affermare che l’impiego della leva fiscale per attrarre lavoratori qualificati sia del tutto ignoto al legislatore domestico. In effetti, negli ultimi anni sono state introdotte a più riprese nell’ordinamento italiano alcune disposizioni fiscali all’uopo. Trattasi, segnatamente, degli incentivi concessi per il trasferimento nel territorio italiano di docenti e ricercatori universitari dall’art. 17 del D.L., 29 novembre 2008, n. 185 (già peraltro disciplinati sotto analoga veste dall’art. 3 del D.L. n. 269/2003), con i quali si prevedeva, per i due periodi di imposta conseguenti al trasferimento, l’imponibilità ai fini IRPEF dei redditi di lavoro dipendente o autonomo nella misura del 10 per cento nonché l’esclusione dalla formazione del valore della produzione netta ai fini IRAP (in virtù della proroghe concesse dapprima dall’art. 44 del D.L. n. 78/2010 e successivamente dalla L. n. 190/2014; peraltro, tali benefici continueranno ad essere disponibili per i docenti e ricercatori che inizieranno a svolgere la loro attività in Italia sino al 31 dicembre 2017), nonché, più di recente, dei benefici concessi con riguardo ai redditi di lavoro dipendente, autonomo o di impresa dei lavoratori rientrati in Italia dalla L., 30 dicembre 2010, n. 238 (agevolazioni quest’ultime invece disponibili sino al 31 dicembre 2015, stante l’abrogazione della proroga al 31 dicembre 2017 disposta dal D.L. n. 192/2014 da parte del comma 4 dell’art. 16 del D.lgs. n. 147/2015). In effetti, la disposizione in commento si propone proprio di realizzare una razionalizzazione e sistematizzazione dei precedenti (ed estemporanei) interventi normativi in materia, coordinando le già esistenti disposizioni agevolative di favore.

A differenza tuttavia degli incentivi concessi in precedenza, il provvedimento in esame non sembra esclusivamente volto a favorire il rientro dei “cervelli” fuggiti all’estero, ma si propone, in via ulteriore, di attrarre anche quei lavoratori stranieri che non siano né cittadini italiani né siano mai stati residenti in Italia. Sul punto, è in effetti significativo che l’art. 16 non effettui alcun riferimento ad una pregressa esperienza lavorativa o di studio in Italia (in realtà, già l’agevolazione fiscale introdotta nel 2008 per i redditi di lavoro dipendente o autonomo dei docenti e dei ricercatori trasferiti in Italia non effettuava alcuna distinzione sulla base della precedente residenza del contribuente). La platea dei potenziali soggetti interessati è dunque piuttosto estesa e comprende anche dirigenti e dipendenti altamente specializzati e qualificati stranieri distaccati da multinazionali presso imprese residenti o società legate da un rapporto di controllo localizzate sul territorio italiano (ma è da ritenersi che non possano che essere incluse, nell’ottica di evitare indebite discriminazioni, anche le stabili organizzazioni italiane di imprese residenti in altri Paesi). Diversamente, la fruizione dell’agevolazione di cui alla L. n. 238/2010 risultava preclusa ai soggetti che svolgessero attività lavorativa alle dipendenze di un datore di lavoro straniero.

Tanto premesso, l’art. 16 del Decreto crescita ed internazionalizzazione prevede, al primo comma, che il reddito di lavoro dipendente prodotto in Italia da lavoratori che trasferiscono la residenza (da individuarsi secondo i criteri di cui all’art. 2 del TUIR) nel territorio dello Stato concorra alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 70 per cento del suo ammontare. L’abbattimento del 30 per cento della base imponibile del reddito da lavoro è tuttavia subordinato al ricorrere di una serie cumulativa di condizioni. In specie, è necessario che:

a) i lavoratori non siano stati residenti in Italia nei cinque periodi di imposta precedenti al trasferimento e si impegnino a permanere in Italia per almeno due anni;

b) l’attività lavorativa venga svolta presso un’impresa residente nel territorio dello Stato in forza di un rapporto di lavoro instaurato con questa o con società che direttamente o indirettamente controllino la medesima impresa, ne siano controllate o siano controllate dalla stessa società che controlla l’impresa;

c) l’attività lavorativa sia prestata prevalentemente nel territorio italiano;

d) i lavoratori rivestano ruoli direttivi ovvero siano in possesso di requisiti di elevata qualificazione o specializzazione, che sono stati puntualmente individuati dal Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) del 26 maggio 2016 facendo riferimento alle previsioni contenute nei decreti legislativi 28 giugno 2012, n. 108 (in tema di condizioni di ingresso e soggiorno di cittadini di Paesi terzi che intendano svolgere lavori altamente qualificati), nonché 6 novembre 2007, n. 206 (relativo al riconoscimento transfrontaliero delle qualifiche professionali) e non, invece, come auspicato da qualche commentatore (cfr. F. Delli Falconi – A. Costa, Redditi dei lavoratori “impatriati” tra nuovi incentivi e razionalizzazione dei regimi agevolati già esistenti, in Il fisco, n. 41, 2015, 1-3924) al Testo Unico sull’Immigrazione di cui al D.lgs., 25 luglio 1998, n. 286.

Quanto all’estensione temporale della suddetta agevolazione, il comma 3 dell’art. 16 dispone che i benefici fiscali siano limitati al periodo di imposta in cui è avvenuto il trasferimento della residenza e, al più, ai quattro periodi di imposta successivi.

Venendo all’analisi dei requisiti suesposti, in forza della disposizione sub a), la concessione dei benefici fiscali è subordinata ad una duplice verifica di ordine temporale. Innanzitutto, il lavoratore non deve essere stato residente in Italia nei cinque periodi di imposta precedenti al trasferimento. Inoltre, per evitare o quantomeno limitare scelte dettate da mero opportunismo fiscale, il lavoratore è obbligato a rimanere residente in Italia per almeno due anni successivamente al trasferimento. Qualora la condizione della permanenza in Italia non venga rispettata, l’art. 3 del citato Decreto del MEF, emanato in attuazione del comma 3 dell’art. 16 del D.lgs. n. 147/2015, ha previsto il recupero dei benefici già fruiti, nonché l’applicabilità delle relative sanzioni e interessi. Al riguardo, tuttavia, è opportuno che l’Agenzia delle Entrate faccia chiarezza sulla fattispecie sanzionatoria applicabile (se si tratta, ad esempio, di omesso versamento o dichiarazione infedele), nonché sulle modalità per il recupero della maggior imposta, in specie se vi debba essere il coinvolgimento del datore di lavoro a titolo di sostituto di imposta.

Poco di significativo v’è da aggiungere invece con riguardo alla nozione di residenza fiscale, che coincide per espressa volontà legislativa con quella impiegata nell’art. 2 del TUIR. Rileveranno dunque tanto l’iscrizione alle Anagrafi della popolazione residente, quanto i concetti mutuati dalle disposizioni civilistiche di residenza e domicilio. Si dovrà altresì tenere conto del requisito temporale della maggioranza del periodo di imposta.

In merito ai requisiti di cui alle lettere b) e d), si ritiene di aver già detto a sufficienza in precedenza. Risulta invece ancora da indagare la disposizione sub c), la quale dispone che l’attività lavorativa debba essere svolta prevalentemente nel territorio italiano. Sul punto, si possono ravvisare alcuni nodi interpretativi da sciogliere. Anzitutto, non è chiaro sulla base di quale criterio determinare la prevalenza dello svolgimento dell’attività lavorativa sul territorio italiano. La soluzione più immediata (e, a mio avviso, più corretta) dovrebbe essere che una prestazione è esercitata prevalentemente in Italia se comporta la presenza fisica del lavoratore nel territorio dello Stato per almeno la metà dei giorni lavorativi più uno. Diversa la soluzione impiegata dall’ordinamento francese che, con riguardo al criterio della prevalenza, non fa riferimento all’attività lavorativa, bensì all’ammontare della remunerazione percepita dal lavoratore che per più del 50% deve derivare da attività lavorativa svolta in Francia (peraltro, secondo tale regime, la remunerazione di fonte estera è esclusa tout court da imposizione in Francia). Il riferimento alla prevalenza dell’attività lavorativa in Italia è però apprezzabile in quanto consente di escludere implicitamente che possa trovare applicazione, per l’eventuale porzione di reddito da lavoro di fonte estera, la contemporanea previsione relativa alle retribuzioni convenzionali per il reddito di lavoro dipendente prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto di cui all’art. 51, comma 8-bis, dal momento che tale disciplina richiede la permanenza nello Stato estero per più di 183 giorni.

Sempre con riguardo all’eventualità che parte del reddito da lavoro sia di fonte estera, non è stato chiarito neppure dal decreto del MEF se l’abbattimento forfetario pari al 30 per cento della base imponibile debba operare esclusivamente sul reddito di lavoro prodotto in Italia ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. c) del TUIR, con conseguente esclusione dell’eventuale reddito da lavoro prestato all’estero, o se, invece, debba riguardare anche l’eventuale porzione di reddito prodotto al di fuori del territorio dello Stato. Sebbene la lettera dell’impianto normativo sembri suggerire che l’esenzione si applichi solo sulla parte di prestazione di fonte italiana, sarebbe opportuno estendere in via interpretativa l’abbattimento forfetario anche alla porzione (che ad ogni modo non deve essere prevalente) di reddito da lavoro di fonte estera, anche in considerazione del fatto che potrà verificarsi di frequente che lavoratori aventi funzioni direttive effettuino trasferte di lavoro o siano distaccati per brevi periodi presso sedi estere dell’impresa residente o società legate da rapporti di controllo localizzate in altri Paesi (tale auspicio è già stato formulato da attenta dottrina, cfr. G. Marianetti, Nuove agevolazioni fiscali per il rientro in Italia dei lavoratori, in Corr. Trib., n. 42, 2015, 4181).

Nell’ottica di realizzare una maggiore armonizzazione e coordinamento delle agevolazioni fiscali già esistenti in materia con la nuova disciplina, il decreto del MEF del 26 maggio 2016, in conformità a quanto prescritto dal comma 2 dell’art. 16 del D.lgs. n. 147/2015, ha poi provveduto ad estendere l’ambito soggettivo della disposizione agevolativa di favore anche ai soggetti già destinatari della misura agevolativa contenuta nella L. n. 238/2010. In specie, si tratta dei:

a) cittadini dell’Unione europea, in possesso di un titolo di laurea che hanno svolto continuativamente un’attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o di impresa fuori dall’Italia negli ultimi ventiquattro mesi o più;

b) cittadini dell’Unione europea che hanno svolto continuativamente un’attività di studio fuori dall’Italia negli ultimi ventiquattro mesi o più, conseguendo un titolo di laurea o una specializzazione post lauream.

Come accennato, le categorie dei destinatari della misura agevolativa coincidono pienamente con i soggetti destinatari delle norme di favore introdotte nel 2010. Tuttavia, a differenza della disciplina prevista dalla L. n. 238/2010, non è più richiesto che i cittadini dell’Unione europea debbano aver in precedenza risieduto continuativamente per almeno ventiquattro mesi in Italia. Inoltre, in luogo della tassazione nella misura del 20 per cento per le lavoratrici e del 30 per cento per i lavoratori prevista dalla L. n. 238/2010, la misura agevolativa de qua comporta, al pari di quanto avviene per i lavoratori dipendenti di cui all’art. 16, comma 1, la detassazione forfetaria del 30% del reddito di lavoro. Rispetto ai lavoratori individuati dal primo comma dell’art. 16, tuttavia, tale reddito non necessariamente dovrà essere di lavoro dipendente, bensì, come specificato dal provvedimento direttoriale dell’Agenzia delle entrate del 29 marzo 2016 (Prot. n. 46244/2016), potrà trattarsi anche di redditi da lavoro autonomo o di impresa. Un’ulteriore notazione merita il fatto che è sufficiente che i soggetti interessati siano cittadini europei, a prescindere quindi dalla circostanza che essi siano stati residenti in alcuno dei Paesi dell’Unione europea. Conseguentemente, non è preclusa la possibilità di usufruire del regime speciale in commento a soggetti provenienti da Stati extracomunitari ma muniti di passaporto comunitario.

Dipoi, con riferimento alle ultime categorie di destinatari delle misure agevolative individuate dal decreto del MEF si ravvisano una serie di dubbi interpretativi.

Come detto, l’applicazione del regime agevolativo di cui all’art. 16 del D.lgs. n. 147/2015 presuppone il trasferimento della residenza fiscale nel territorio dello Stato ai sensi dell’art. 2 del TUIR, vale a dire che il soggetto non fosse residente prima di rientrare in Italia. Tuttavia, non è infrequente, specie nel caso di uno studente, che il soggetto successivamente rientrato in Italia abbia omesso, al momento del primo trasferimento all’estero, di cancellarsi dall’anagrafe della popolazione residente e di iscriversi all’AIRE. È ragionevole domandarsi se, in tale evenienza, il soggetto sia ammesso al regime speciale qualora dimostri a mezzo di idonei giustificativi (ad esempio, contratto di lavoro, certificato di laurea o corso post-laurea, visti di ingresso e uscita, contratti di locazione di immobili) di aver svolto effettivamente attività di lavoro o studio all’estero.

Inoltre, ci si può domandare se, ai fini dell’applicazione del regime agevolativo in rassegna, sia richiesta una qualche attinenza rispetto ai titoli di laurea o post lauream conseguiti e l’attività di lavoro (dipendente, autonomo o di impresa) successivamente effettuata in Italia.

Ed ancora. Quid iuris nel caso di un soggetto, già in possesso o in procinto di conseguire un diploma universitario, che svolga continuativamente un’attività di studio fuori dall’Italia per un periodo inferiore a ventiquattro mesi ma che, successivamente al conseguimento del titolo stesso o di altra specializzazione post lauream, svolga continuativamente all’estero un’attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o di impresa, per un intervallo temporale inferiore a ventiquattro mesi, in modo tale da raggiungere complessivamente (sommando attività di studio ed impiego occupazionale) un arco temporale uguale o superiore a ventiquattro mesi?

Da ultimo, è lecito interrogarsi se, ai fini del computo dei ventiquattro mesi, si debba fare riferimento al concetto di anno secondo il calendario comune, inteso come periodo decorrente da un qualsiasi giorno dell’anno e fino al giorno antecedente dell’anno successivo.

In conclusione, è necessario precisare come alla maggioranza dei quesiti suesposti l’Agenzia delle Entrate abbia già fornito risposta con la circolare 4 maggio 2012, n. 14/E, seppur con riferimento alla categoria dei destinatari delle agevolazioni fiscali previste dalla L. n. 238/2010. Tuttavia, sarebbe opportuno un chiarimento da parte dell’Agenzia in senso confermativo della validità delle posizioni in allora sostenute anche per la nuova disciplina di cui all’art. 16 del D.lgs. n. 147/2015, nonché, più in generale, al fine di rispondere alle ulteriori criticità di cui si è cercato di dare conto nel presente contributo.

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